venerdì 14 ottobre 2011

Tempo di vendemmia

Da mesi la invoco, infondo vivo nella patria del vino.
Da settimane la attendo, perché le vigne che ogni giorno mi circondano sono uno dei simboli di questo territorio. Sono arrivata in inverno ed erano spoglie, in primavera hanno messo le prime foglie, in estate abbiamo visto comparire i grappoli e da qualche settimana tutti in azienda aspettiamo il comando, l’ordine, la frase fatale: “comincia la vendemmia”.
E la vendemmia iniziò. E io rimasi delusa.
Avevo immaginato la festa dell’uva, canti e chiacchiere in mezzo ai filari, ero arrivata a sognare in una torrida notte estiva, quando il termometro segnava trenta e passa gradi, di una leggera brezza settembrina tra le vigne, di un tino enorme dove affondare i piedi nel mosto come nei film…..i miei sogni svanirono il giorno che un enorme camion frigorifero ha varcato i cancelli della nostra azienda parcheggiandosi ai bordi della vigna.
Sono dolente di informare tutti i nostalgici che hanno pianto di fronte alle scene zuccherose di “ il profumo del mosto selvatico” che la vendemmia qui in Chianti è ormai spoglia di qualunque poesia: è roba per tecnici enologi, trattoristi, cantinieri.
In queste settimane il Chianti mi ha rivelato il suo “lato oscuro della forza”: trattori dai carrelli stracolmi d’uva e camion carichi di grappoli bianchi e rossi attraversano in lungo e in largo le strade tranquille, fiancheggiate dai cipressi in mezzo alle colline; vanno e vengono dalle aziende agricole alle cantine che si trovano  nei centri maggiori: Gaiole, Greve in Chianti o il Valdarno.
Le cantine, tranne quelle storiche, hanno tutte lo stesso aspetto deprimente: enormi parallelepipedi di cemento, al cui interno tutta una serie di macchine e strumentazioni lavorano quintali e quintali di uva al giorno, in un ciclo del tutto simile a quello con cui alla Fiat producono le utilitarie, un ciclo che in una parola si può definire industriale.
Insomma, inutile farsi ingannare dalla bellezza delle vigne color verde e oro che si stendono all’orizzonte all’ora del tramonto: fatte le debite proporzioni stare qui è come stare in Arabia Saudita in mezzo alle raffinerie di petrolio, laggiù parlano di oro nero e qui si tratta di oro rosso o bianco….vino o petrolio le differenze sembrano poche nel vedere la “macchina produttiva” all’opera.
E nella mia azienda? Come se la cavano i paladini del biologico?
Questa volta, direi piuttosto male. È vero le nostre vigne, rispetto alle altre, sono state “trattate” pochissimo: mentre i nostri vicini spruzzavano zolfo e altre sostanze chimiche sui filari noi cercavamo di usare solo prodotti naturali. Però il nostro vino deve stare sul mercato come gli altri e anche noi, arrivati al momento della vendemmia, entriamo in quest’enorme catena di montaggio dell’uva e quindi…..e quindi refrigerazione – il camion frigorifero di cui sopra – delle uve bianche per mantenerle a temperatura ideale durante la raccolta e portarle in cantina tutte in una volta, prove di acidità, controlli sulla quantità di zucchero nel chicco d’uva, ma soprattutto raccolta selettiva: ovvero ogni raccoglitore – leggi anche i disgraziati come me – raccoglie un grappolo e seleziona i chicchi migliori scartando quelli troppo maturi o coperti di muffa…e scartare vuol dire buttare via almeno il trenta per cento del prodotto ad occhio e croce.
E poi ho rapidamente realizzato che per fare la vendemmia ci vuole un sacco di benzina: i trattori vanno avanti e indietro in mezzo alla vigna per caricare e scaricare le cassette da raccolta, i camion portano l’uva in cantina…tutta l’uva che diventerà vino viene spostata su gomma, per produrre una bottiglia di vino da un litro ce ne vogliono almeno due di benzina anche se si tratta di vino biologico. Insomma cari amici, sono costretta a confessare che la vendemmia così lungamente sognata e cominciata solo qualche giorno fa si sta trasformando in un incubo: in pratica passo ore e ore in mezzo al filare spostandomi ad una velocità prossima a quelle delle lumache e facendo sempre gli stessi identici, noiosi movimenti. In una delle numerose allucinazioni che ho avuto – verso il mezzogiorno, gradi ventisette, sole a picco - mi sono vista novella Charlie Chaplin in “ Tempi Moderni” ad una catena di montaggio che però smonta e rimonta viti e piante da frutto…come fossero parti meccaniche e componenti tecnologici...e forse infondo lo sono: se il mio capo si aggira con spettrometri e strumenti vari a misurare e controllare vuol dire che la tecnologia è entrata anche in vigna. Magari sarà un bene per la qualità del vino – io che ne so non sono un tecnico – ma io non sento il calore. Non sento l’amore. Non sento la bellezza. E non mi diverto.
E tutto questo mi fa ricordare perché ormai quasi un anno fa sono scappata dalla città, dalla civiltà, da una vita diversa, per venire qui.
Certo ci sono stati motivi razionali e ragioni pratiche, vicissitudini personali e professionali….ma se dovessi spiegarlo a un bambino di cinque anni perché sono venuta qui, io che fino a dieci mesi fa non avevo mai piantato neanche un geranio in terrazza, gli direi questo: non sentivo più il calore, l’amore, la bellezza, non mi divertivo più.
E anch’io come le piante di vite sono arrivata qui spoglia, nuda e a poco a poco ho messo le foglie, ho ripreso i miei colori….e anch’io come le piante di vite mi avvicino a maturazione tanto più che tra poco sarà anche il mio compleanno e  per parafrasare il sommo poeta mi avvicino al mezzo del cammin di nostra vita…..allora la domanda è d’obbligo e vale per me come per tutti i miei coetanei che in questi tempi difficili attraversano acque perigliose:

Quand’è che la MIA pianta darà i suoi frutti?
Qual è il tempo giusto per fare la vendemmia di un anima?

venerdì 9 settembre 2011

Voi di città..

Capita ogni volta che torno. Capita ogni volta che salgo in macchina e ripercorro al contrario lungo un’autostrada affollata di turisti che vanno in cerca di estate e di mare, la strada che mi ha portato quassù, nel cuore del Chianti a lavorare la terra. Capita nei week end di riposo, capita mentre sto in fila al supermercato o in un ufficio postale, capita, capita sempre più spesso che una voce interiore si metta ad apostrofare gli altri intorno a me, amici, conoscenti, volti sorridenti e benevoli, in un modo strano, nient’affatto scontato….li chiama: voi di città.

E adesso che sono in vacanza e che quindi la permanenza al di fuori del mio angolo di Chianti si fa più lunga la voce si fa sentire più spesso. Intendiamoci anch’io sono una di città, nata, cresciuta e vissuta in città e ho pure l’ambizione di tornarci prima o poi a vivere in quei luoghi civilizzati dove i supermercati stanno aperti fino alle ventuno e per andare al cinema non devi farti quaranta minuti di macchina. Ma l’esperienza che sto facendo mi ha dato un paio nuovo di occhiali con cui guardare la vita urbana e civile. Stili di vita, oggetti, comportamenti che prima non notavo improvvisamente richiamano la mia attenzione.
Prendiamo ad esempio il pane già affettato. Io, da quando vivo qui, ci divento matta per il pane già affettato. Ovviamente il pane per il ristorante del nostro agriturismo viene cotto nel forno a legna della fattoria ed è sicuramente più saporito, salutare, bio-eco-politicamente corretto del pane che tutti voi di città comprate al supermercato. Ma il punto non è questo.
È che pochi giorni fa mi sono accorta che esistono nella maggior parte dei punti vendita queste confezioni in cellophane con dentro una forma di pane già tagliata in tante fette. E guardando questo pane nella sua busta di plastica mi è venuto in mente il Mitraglia (chi frequenta questo blog sa chi è il Mitraglia chi non lo frequenta sappia che è un mio collega di lavoro inconfondibilmente chiantigiano) il Mitraglia che in inverno, quando faceva freddo e durante la pausa pranzo ci radunavamo tutti intorno ad una stufa a legna, prendeva la sua enorme forma del pane, se la accostava contro il petto e tagliava una fetta larga, grande, per fare la fett’unta: pane, olio e sale. La prima volta che lo vidi intento in quel gesto l’immagine delle mani di mio nonno che tagliava il pane nella stessa maniera si sovrappose alla sua e mi resi conto che quel gesto era parte di una storia e di una cultura come un’antica colonna o un dipinto famoso.
E da quando ho avuto questo flash back la mia vocetta interiore non fa che ripetermi che se non avete manco due minuti per tagliarvi il pane da soli voi di città siete messi proprio male.
E poi ci sono quelli che vanno dal tabaccaio dietro l’angolo in macchina, e badate bene, io ero una di loro. Invece ora che cammino praticamente tutto il giorno, avanti e indietro per vigne, boschi, viottoli inghiaiati in mezzo agli orti e ho imparato che mentre si cammina succedono un sacco di cose, non riesco più a salire in macchina con tanta disinvoltura come fate voi di città per andare a trovare i vicini di casa.
Proseguendo nella lista delle cose che fanno arrabbiare la mia vocina interiore troviamo quelli che tornando da una giornata passata davanti al pc o da un match di Tennis, crollano come sacchi di patate sulla prima sedia che trovano ed esclamano: << come sono stanco>>.
La mia vocina con loro è davvero spietata. Diventa antipatica, maleducata, li apostrofa usando le più triviali, volgari espressioni dialettali…tratte dai più vari dialetti d’Italia!
Vi riporto un breve stralcio del suo sproloquiare, uno dei pochi che si possa trascrivere senza dover temere denunce per vilipendio alla religione:
EH NO, COCCO BELLO LA STANCHEZZA NON E’ COSA DI CUI TU POSSA PARLARE….
Ti fanno male I POLSI per caso? Nooooo e questo perché non hai passato la giornata a zappare….
Fai fatica a masticare la cena? Nooo e questo perché non hai dovuto tenere tutto il giorno le mascelle serrate per evitare di battere i denti dal freddo……
 La mia vocina va avanti su questo tono per un pezzo finché io la zittisco dicendo che conosco e rispetto la fatica di un lavoro intellettuale o di qualunque altra natura e quindi è inutile essere così sprezzanti sebbene…..sebbene concordi con lei che voi di città avete dolorosamente perso il senso di molte cose tra cui di cosa voglia dire  lavorare fino all’esaurimento fisico.
Ho paura che sia in atto nel mio corpo una sorta di mutazione antropo-fisiologica: ogni giorno mi spunta un nuovo callo, ogni settimana mi accorgo che le mie “c” sono sempre più scivolose e dolci come previsto dal dialetto toscano, il parrucchiere è un signore che vedo sempre più di rado e quando ritorno alla civiltà mi spavento per il rumore dei clacson e per le luci abbaglianti delle insegne al neon.
Cambiano, evolvono, si trasformano le mie convinzioni: prima dell’inizio di questa avventura credevo che progresso volesse dire trovare modi per fare le cose in meno tempo, con l’impiego della minor fatica fisica possibile. Ma da quando faccio le cose lentamente, da quando la maggior parte delle mie azioni quotidiane costano fatica, sono diventata più calma, più serena…non mi capita più di pronunciare quelle parole che nella mia precedente vita metropolitana erano comuni e quotidiane nella mia bocca come in quella dei miei amici e conoscenti: ansia, stress, angoscia, nervosismo e via dicendo.
Certo qui non è tutto facile, la pace bucolica non è sempiterna, in mezzo ai fiori ci sono anche le erbacce…ma di sicuro quando tra non molto tornerò alla mia vita di città, ai clacson, alle luci al neon, ai frullatori, ai megastore aperti ventiquattrore su ventiquattro….continuerò ad affettarmi il pane da sola perché ho imparato che ogni gesto ha un significato e che la pienezza, la ricchezza di una vita può essere proprio riempire di senso ogni cosa, ogni singola, piccola azione che compone il nostro quotidiano.
Ecco, la mia vocetta interiore proprio adesso mi sta facendo una domanda: vuole sapere se voi di città ci pensate spesso al senso di quello che fate, ma ci pensate davvero, lentamente, intensamente, profondamente...